Confortata da evidenze cliniche, l’Autore ipotizza che nei casi di trauma, abuso, maltrattamento avvenuti nei primissimi anni di vita, il sé possa restare in animazione sospesa (Vallino, 2004), in attesa di accedere a un significato condiviso, il solo che può avviare la mentalizz- azione (Scotto di Fasano, 2003) e, quindi, consentire sia uno sguardo rivolto al senso comunicativo del sintomo sia che la sofferenza, non restando solitaria e senza senso (Pozzi, 2003), un incomprensibile fatto carne (Scotto di Fasano, 2003), possa evolvere in dolore psichico. Il fatto che ciò possa accadere nelle fasi iniziali dello sviluppo (Salomonsson, 2011) evita ai soggetti l’incarcerazione (Shore, 1994; Steiner,1996) in stati mentali patologici. A questo proposito l’Autore riflette su un concetto tendenzialmente poco esplorato perché inquietante e scomodo da pensare, tanto più se riferito a noi stessi, alla vita mentale in- fantile e alle funzioni genitoriali e terapeutiche: l’odio, che, per quanto ingrediente indispensabile dello sviluppo mentale (Freud, 1915; Jeammet, 1989; Nielsen, 2011), è risultato e risulta arduo da esplorare e pressoché impossibile da ammettere come costitutivo della psiche, a dispetto del fatto che il pensiero, come l’oggetto, nasce nell’odio (Freud, 1915).
Keywords: Mentalizzazione, odio, dolore psichico.