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Il tema del Workshop internazionale è stato individuato in base alla possibilità di usufruire, nel tempo breve a disposizione, di ricerche, rilevazioni ed esperienze di restauro urbano, già svolte in precedenza, nel corso dell’attività del Master in Restauro architettonico e culture del patrimonio. Il Workshop è stato quindi programmato allo scopo di sperimentare altri percorsi progettuali, fondati anch’essi sulla comprensione della genesi urbana dell’isolato e in grado di offrire nuove interpretazioni della sua complessa stratificazione urbana. Il contributo e l’impegno di José Ignacio Linazasoro, che ha generosamente accettato il nostro invito insieme con Luca Arcangeli, non poteva che rispondere nel modo più colto e brillante alle aspettative, come dimostrano le pagine che seguono.
Tema del workshop è la progettazione di un sistema di microarchitetture e spazi per la collettività (biblioteca, centro civico, coworking, percorsi attrezzati), nella periferia sud-est di Roma ai margini del quartiere Tuscolano e lungo il perimetro del Parco degli Acquedotti. Le aree di studio appartengono alla porzione della Campagna romana più prossima alla città storica, caratterizzata da un insieme discontinuo e poroso di infrastrutture antiche, moderne e contemporanee: gli antichi acquedotti, le vie consolari con le loro emergenze monumentali, ma anche gli interventi che regolano oggi la mobilità metropolitana, le ferrovie esistenti e le nuove previsioni, i recinti e gli spazi residuali della contemporaneità. Il limite in cui il progetto si inserisce non è quindi una “linea” ma una serie di “spazi” in cui si confrontano segni diversi ed eterogenei sui quali l’architettura è chiamata a intervenire modificando il frammento, riconnettendo le parti, reinterpretando le relazioni.
L’Area Archeologica Centrale rappresenta oggi un fondamentale indice rivelatore della complessa interrelazione delle forme urbane succedute in Roma rispetto ad un contesto fisico peculiare che ne ha favorito e direzionato lo sviluppo. Nel risolvere l’evidente carattere di isolamento e separazione cui l’area attualmente risponde in rapporto alla città contemporanea, è necessario concentrare le attenzioni sulla risoluzione strategica di quelle discontinuità topografiche che oggi impediscono un assetto organico tra le quote antiche, moderne e contemporanee. Lo studio propone alcune possibili soluzioni progettuali in grado di descrivere nell’operare sulla matrice orografica una maggiore sinergia nelle forme di Roma.
Il testo qui proposto restituisce fedelmente[1] la lectio magistralis che i due architetti premio Prizker Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal hanno tenuto il 15 settembre 2023 nelle aule del dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre, a conclusione del workshop immersivo Lacaton & Vassal @ TMB Salario: Riuso e nuovo ciclo di vita per l'area dell'ex TMB Salario, che si proponeva di ripensare il grande impianto di trattamento dei rifiuti, dismesso da qualche anno. Tramite una rassegna dei loro progetti più significativi, Anne Lacaton e Jean Philippe Vassal hanno ricostruito, con parole e immagini, il loro approccio distintivo alla progettazione, rispettoso dell’esistente, di ciò che già c’è e di chi già abita, senza però mai rinunciare all’ambizione, e alla responsabilità, di saper generare e accompagnare una trasformazione radicale dell’esistente, una metamorfosi.
Il contributo intende restituire gli esiti del workshop immersivo di due settimane proposto dal corso di laurea magistrale in Architettura-Progettazione Urbana del Dipartimento di Architettura dell’Università degli studi Roma Tre, tenutosi nel settembre 2023 e condotto assieme agli architetti francesi Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal, vincitori del Premio Pritzker 2021. Il workshop si proponeva di ripensare un grande impianto di trattamento dei rifiuti della città di Roma, il TMB Salario, dismesso qualche anno fa a seguito di un vasto incendio e dopo lunghi anni di proteste da parte dei residenti. A partire da alcuni assunti metodologici proposti dai due architetti francesi, tanto semplici quanto radicali, come “saper riconoscere valore in ciò che già c’è”, studentesse e studenti hanno immaginato un nuovo spazio di possibilità per la città, connesso, trasparente e aperto. La principale ambizione dei progetti di seguito presentati è quella di ricucire un rapporto di fiducia tra gli abitanti e uno spazio che a lungo hanno subito, e che può e deve invece diventare un luogo attraente, vitale, pubblico.
Il contributo mira ad esplorare, attraverso la fotografia, la relazione tra archeologia e città nei Campi Flegrei. Le fotografie tendono alla lettura dell'archeologia nel contesto urbano, evidenziando le relazioni simbiotiche tra gli elementi storici e la vita contemporanea.
Nell’ottobre del 1969, con l’istituzione nelle Facoltà di Architettura dell’insegnamento della Tecnologia dell’architettura, il nozionismo tecnico espresso dagli “elementi costruttivi” fu messo in crisi dall’indeterminazione dettata dalla téchne nella sua capacità esplorativa e del “sapere perché” che precede il “sapere come”. Fra le varie discipline, la Tecnologia dell’architettura esprimeva un approccio critico ai modi abituali di abitare, prefigurando per il futuro una tecnica capace di legare l’oggettivo delle concrete possibilità tecnologiche con il soggettivo, costituito dalla qualità della vita. La trasformazione dell’impianto didattico fu attuata a partire dalla critica di una concezione progettuale che guardava alle componenti tecnico-costruttive prevalentemente come restituzione della completezza del progetto nei soli materiali da costruzione e nelle componenti esecutive. Con la Tecnologia dell’architettura emergeva la dimensione ambientale nell’insegnamento dell’Architettura, in cui il nuovo campo disciplinare offriva la base per la riflessione su idee e metodi che, partendo dall’ecologia, inserivano nuovi valori per il progetto secondo un approccio sistemico, capace di guardare alla costruzione dell’habitat attraverso processi complessi e architetture sperimentali. Gli attuali assetti disciplinari si muovono su una revisione degli approcci di carattere tecnicistico che inducono a sviluppare competenze profonde ma che smarriscono il senso critico sulla tecnica e nelle sue interazioni etiche, ambientali e socioeconomiche. Nella nuova titolazione ministeriale di “Progettazione tecnologica e ambientale dell’architettura”, la disciplina esprime lo slancio verso un pensiero che riesca a governare criticamente le scelte e gli usi della tecnica, attraverso lo sviluppo di filiere centrate sull’apprendimento degli allievi e non sull’erogazione di contenuti, alimentando l’attitudine alla risoluzione di problemi complessi secondo la duplice capacità di contestualizzazione e di astrazione.
L’urbanistica e la pianificazione territoriale sono scomparse dal dibattito pubblico proprio mentre quest’espressione conquistava una diffusione, un successo e una banalizzazione senza precedenti. Il testo fa riferimento non alle pratiche partecipative interne alle procedure urbanistiche, ma al dibattito pubblico generale, quello che crea opinione pubblica e che oggi è cambiato perché ne sono mutati gli strumenti principali. La questione è posta in relazione con alcuni dei cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni: perdita del ruolo democratico dell’opinione pubblica sempre più eterodiretta dalla potenza dei massmedia; perdita di misura del rapporto tra pubblico e privato a vantaggio di quest’ultimo; perdita del ruolo politico-interpretativo delle discipline dell’urbanistica a vantaggio di un ruolo politico-esecutivo, dunque meramente funzionale al potere. Nel primo caso le difficoltà per una disciplina che si basa su analisi complesse e prova a dare concretezza a visioni di lungo periodo, deriva dalla presentificazione degli orizzonti che rende difficile trovare ascolto da parte dell’opinione pubblica. Nel secondo l’arretramento del ruolo dello Stato e del “pubblico” genuflessi rispetto al modello economico iperliberista ha spinto l’urbanistica a non concorrere più al compito costituzionale di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini,. Nel terzo la responsabilità è invece proprio degli urbanisti che hanno abbandonato il loro ruolo politico-interpretativo a vantaggio di un ruolo politico-esecutivo, meramente a servizio del potere. Il testo argomenta la tesi che occorre restituire l’urbanista al ruolo di intellettuale, capace di intervenire nel dibattito pubblico a partire dalla specificità del suo sapere, per proporre letture e soluzioni di prospettiva “eversive” rispetto allo status quo, da mettere a disposizione di coloro, cittadini e territori, che sono rimasti inascoltati.
In questo articolo prosegue una traiettoria di studi su trasformazioni urbane e progettazione urbanistica. Più precisamente, l’articolo tratta delle tensioni che attraversano oggi le discipline che si occupano di trasformazione urbana, provando a costruire un itinerario tra alcuni frammenti di ragionamento tornati con forza nella riflessione urbanistica contemporanea. Questi frammenti si annodano a concetti importanti con una lunga storia: rischio, protezione, potere pastorale, corpo somatico, biopolitica. Hanno radici esterne ai nostri campi, ma hanno giocato al loro interno e ancora giocano, anche se in modi differenti. In questo scarto, in questa distanza con l’uso che ne è stato fatto in passato, si situa il loro interesse.
Questo articolo presenta un caso clinico di un uomo di 50 anni con una dipendenza da cocaina, trattato con psicoterapia breve. L’intervento terapeutico si è focalizzato sull’esplorazione e il potenziamento delle risorse del paziente, incluse le passioni personali, il legame familiare e le esperienze di successo passate nel superamento di altre dipendenze. Il trattamento ha portato alla sospensione dell’uso di cocaina e a un miglioramento generale del benessere psicologico, dimostrando l’importanza delle risorse individuali nel percorso di guarigione.
L’incontro con un paziente mutacico, chiuso in un mondo difficilmente esplorabile, rappresenta una grande sfida terapeutica. La costruzione della fiducia e della alleanza terapeutica si affida a ripetuti tentativi comunicativi, che consentono nel tempo la costruzione di uno spazio intersoggettivo che rende possibili la comprensione ed il riconoscimento reciproco. Tale assetto utilizza come chiave di lettura gli sviluppi della teoria dell’informazione.
Obiettivo dell’articolo è quello di illustrare i tratti distintivi dell’implementazione della Terapia a Seduta Singola (TSS) rispetto agli interventi con le famiglie. La TSS è un metodo d’intervento innovativo applicato da oltre trent’anni a livello internazionale, basato sulle risorse e sul principio che una singola seduta può rappresentare un intervento efficace. Il Metodo Italiano dell’Italian Center for Single Session Therapy si configura come un intervento resource–based e strength-oriented. Attraverso il paradigma della ricerca intervento, il metodo si presta a continue evoluzioni e funzionali adattamenti che consentano di massimizzare l’efficacia di un singolo incontro, inteso sia come unico momento di intervento che come primo di altri. Attualmente, rappresenta il punto di partenza di un continuo lavoro di ricerca, finalizzato allo studio di pratiche, competenze e tecniche innovative, in grado di rendere l’intervento sempre più mirato alle esigenze della persona e breve nella durata. La TSS applicata al contesto delle famiglie rappresenta una leva di cambiamento fondamentale per affrontare i cambiamenti legati al ciclo di vita dei membri del sistema famiglia. Attraverso la descrizione dei casi clinici si potrà osservare il metodo in azione con problematiche legate all’adolescenza.
Attraverso un rapsodico excursus storico che procede dal mondo greco fino all’attualità, l’Autore tratteggia le modalità storiche di entrata in scena della figura del giovane sia nel micro ambito familiare che in quello macro sociale. L’articolo propone una visione d’insieme dei fenomeni dissociali e violenti mettendo in risalto particolarmente gli elementi di continuità piuttosto che le diverse tipologie. Il contributo si sofferma su particolari manifestazioni storiche ed artistiche che ritraggono esemplarmente la complessità del tema.
A partire dall’inizio della pandemia di COVID-19, si è registrato un incremento significativo dei disturbi psicopatologici in adolescenza (11-17 anni), accentuando una tendenza già presente nel decennio precedente, come evidenziato da recenti studi nazionali e internazionali. Questo aumento riguarda sia la prevalenza generale dei disturbi mentali che la frequenza dei casi più gravi e acuti, i quali spesso richiedono un intervento tempestivo e un ricovero specialistico. Tuttavia, l’offerta di posti letto per ricoveri neuropsichiatrici in questa fascia d’età risulta ancora molto limitata, con una strutturazione inadeguata nei reparti di diagnosi e cura psichiatrica tradizionali per accogliere pazienti minorenni. In risposta a questa emergenza clinica e organizzativa, nel febbraio 2024 è stato avviato presso il Servizio di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’AUSL-IRCCS di Reggio Emilia il Centro Diurno Adolescenza Aïda. Il servizio, rivolto a giovani con gravi disturbi psichiatrici, offre un intervento semi-residenziale strutturato con attività cliniche, riabilitative e laboratoriali, a diversi livelli di intensità (alta, media, bassa), in base alla gravità clinica e al monitoraggio dell’andamento terapeutico. Il presente contributo si propone di effettuare un primo bilancio di questa esperienza a livello clinico e organizzativo ad un anno dall’apertura, contribuendo ad una riflessione su modelli assistenziali innovativi per la salute mentale in età evolutiva.
Negli ultimi anni, si è osservato un fenomeno socioculturale e clinico emergente: la “popolarizzazione” della sofferenza intrapsichica tra gli adolescenti. Questo elemento comprende una crescente tendenza dei giovani a identificarsi con diagnosi psichiatriche, una fascinazione per il ruolo di “paziente psichiatrico” e un interesse per le terapie, specialmente farmacologiche. Mentre tali comportamenti possono rappresentare una ricerca di senso e legittimazione del proprio disagio, e una maggior consapevolezza circa il tema della salute mentale, si sollevano però interrogativi critici sul rischio di una medicalizzazione eccessiva, sull’impatto delle diagnosi precoci e sulla capacità dei servizi di salute mentale di accogliere e rispondere a questa complessità. Questo articolo esplora il fenomeno nei suoi aspetti psicologici, culturali e clinici, proponendo riflessioni per il futuro della psichiatria dell’adolescenza.
Based on ‘radical interactionism’ (Athens, 2007) and narrative criminology (Presser & Sandberg, 2015), this contribution foregrounds violent offenders’ ‘cosmology’ – a notion directed at reassigning a meaning to (violent) human behaviour beyond any rigid and formal distinction between ‘normality’ and psychic suffering. This concept helps to recognise and understand the symbolic and emotional dimensions that are accessed by social actors when they prepare and carry out a violent act. Drawing on the story of Stefania Albertani and using ‘transformative interviews’, we aim to valorise the reflexive knowledge that emerges from the first-person narrative of the offender. In so doing, we advance an innovative theoretical proposal that aims at producing a form of transformative knowledge with the potential of problematising and re-orienting the public imagination around violent offenders and prison institutions.