Nel corso degli ultimi quindici anni, tre accordi internazionali sono stati conclusi con l’obiettivo di una riconciliazione per le violenze perpetrate nel periodo coloniale: il patto di amicizia tra Italia e Libia del 2008, l’accordo del 2015 tra Corea e Giappone per risarcire le vittime del sistema giapponese di prostituzione forzata e la dichiarazione congiunta del 2021 tra Germania e Namibia, relativa al genocidio dei popoli Nama e OvaHerero. Questo articolo intende studiare il ruolo che le vittime di quelle violenze (o meglio, i loro discendenti e rappresentanti) hanno svolto nel processo di negoziazione e conclusione di queste intese: la mancata (o limitata) partecipazione delle vittime al processo negoziale sembra infatti all’origine di un sostanziale fallimento di almeno due di questi accordi. Appare dunque interessante domandarsi – anche alla luce di alcune recenti prassi statali e prese di posizione di organi delle Nazioni Unite – se il c.d. treatymaking power sia ancora una prerogativa esclusiva degli Stati (ovvero dei governi e, talvolta, dei parlamenti nazionali) o si possa invece immaginare un’evoluzione del diritto internazionale nel senso di rendere vincolante, almeno per determinate tipologie di accordi, il coinvolgimento di alcuni individui o gruppi di individui nel processo di negoziazione e conclusione dei trattati internazionali.